Roma, per la prima volta, accende i riflettori sul maestro spagnolo Francisco de Zurbarán (1598-1664), uno dei più grandi interpreti, insieme a Diego Velázquez e Bartolomé Esteban Murillo, della pittura spagnola del cosiddetto «Siglo de Oro».
Il prestito dal Saint Louis Art Museum e l’arrivo ai Musei Capitolini dal 16 marzo al 15 maggio 2022 del San Francesco contempla un teschio, uno tra i più impressionanti dipinti del formalismo mistico del maestro spagnolo, costituisce pertanto un’occasione
d’eccezione per conoscere da vicino il suo peculiare linguaggio pittorico, la cui lezione fu compresa per primi dai pittori francesi dell’Ottocento e riconosciuta dalla critica italiana e internazionale solo a partire dagli anni Venti del Novecento.

Inoltre, la scelta di allestire l’opera nella Sala Santa Petronilla la pone idealmente in dialogo sia con le due tele di Caravaggio in essa presenti, la Buona Ventura e il San Giovanni Battista, sia con il Ritratto di Juan de Córdoba di Diego Velázquez: quattro capolavori, dunque, eseguiti nell’arco di circa cinquant’anni, il cui accostamento offre una riflessione sull’arte dei tre protagonisti della pittura seicentesca.
Il progetto espositivo “Zurbarán a Roma. Il San Francesco del Saint Louis Art Museum
tra Caravaggio e Velázquez” è promosso da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai
Beni Culturali ed è curato da Federica Papi e Claudio Parisi Presicce. Organizzazione di Zètema Progetto Cultura.
In origine era parte di una pala d’altare (retablo) conservata nella chiesa carmelitana del collegio di Sant’Alberto a Siviglia, nonostante le dimensioni contenute, costituisce una delle raffigurazioni più
affascinanti del fraticello d’Assisi.
Il santo, vera e propria ossessione pittorica dell’artista (che ripete il soggetto in altri lavori nel corso della sua attività), è raffigurato in piedi, con il caratteristico abito dei cappuccini mentre contempla un teschio che tiene tra le mani.
L’aspetto severo e monumentale della composizione è accentuato dal forte rigore geometrico, dalla verticalità del cappuccio e delle pieghe della veste che cade dritta fino a terra lasciando scoperte soltanto le punte delle dita dei piedi scalzi.
Il dialogo silenzioso tra il santo e il cranio simboleggia il passaggio dalla vita alla morte alludendo alla fragilità dell’esistenza umana, un tema ricorrente nell’arte barocca spagnola e in generale in quella della Controriforma.
Il processo creativo e visivo è dunque lento e non immediato, come avviene inCaravaggio, e le luci e le ombre non assumono un valore naturale bensì simbolico e spirituale.
Tratto dal comunicato stampa ufficiale dei Musei Capitolini.

Cenni biografici su Francisco de Zurbarán.
Originario della regione dell’Estremadura, Zurbarán si formò a Siviglia presso il pittore poco noto
Pedro Díaz de Villanueva entrando però in contatto anche con il più celebre Francisco Pacheco e il
suo giovane allievo Diego Velázquez. Nel 1618 si stabilisce a Llrena (Badajoz) dove lavora per
chiese e conventi e dove si sposa due volte. Nel 1626 ottiene un importante incarico dai domenicani di Siviglia, città nella quale si trasferirà definitivamente nel 1629 invitato dalle autorità cittadine.
Nel capoluogo dell’Andalusia lavorò per le maggiori comunità monastiche realizzando i suoi primi capolavori, tra cui il monumentale e iperrealistico Cristo crocifisso (1627, Art Institute of
Chicago), i celebri quadri con episodi della Vita di san Pietro Nolasco (1629, Museo del Prado), i ritratti dei frati dell’ordine della Mercede (Madrid, Accademia di San Fernando) e la solenne tela con l’Apoteosi di san Tommaso d’Aquino (1631, Siviglia, Museo de Bellas Artes).
In queste opere Zurbarán si rivela già pittore naturalista e poetico interprete dell’atmosfera spirituale della vita conventuale lontana da qualsiasi vanità e celebrazione.
Il tenebrismo di matrice caravaggesca sifonde con il suo cromatismo rendendo reali i soggetti per effetto della luce, veicolo del divino, che illumina e scolpisce come un’accetta i suoi modelli. Nel 1634 su iniziativa di Velázquez è chiamato a Madrid per partecipare alla decorazione del palazzo del Buen Retiro per il quale esegue dieci grandi quadri a soggetto mitologico.
Tornato a Siviglia con il titolo di «pittore del re», realizza il ciclo pittorico per la Certosa di Jerez, oggi smembrato (1637-39, Musei di Cadice e Grenoble,
Metropolitan Museum) e quello ancora in situ del monastero geronimita di Guadalupe (1638-39),
ritenuti tra le opere più valide della sua produzione matura per l’interpretazione fortemente
realistica del misticismo ispanico più profondo. Alla fiorente attività del suo laboratorio si affiancano
però diverse avversità nella sfera privata: nel 1639 muore la seconda moglie e dieci anni dopo
perde anche il figlio collaboratore Juan colpito dalla peste del 1649. Il decennio successivo vede il
mesto tramonto della sua fama sotto l’imperversare a Siviglia della nuova pittura dolciastra di
Murillo. Zurbarán, concentra quindi la sua attività su una serie di dipinti destinati al fiorente
commercio con l’America dove le sue pitture erano ancora particolarmente richieste.
Dal 1568 finoalla morte nel 1664 risiederà a Madrid con la terza moglie conducendo una vita modesta e
dedicandosi a quadri di piccole dimensioni e di devozione privata. Sono gli anni in cui cercherà di
adeguarsi alle nuove mode pittoriche addolcendo le forme e imprimendo alle sue tele un cromatismo atmosferico assimilato da Velázquez, senza però mai rinunciare alla sua monumentale severità.
Superbe rimangono ancora oggi le sue nature morte (bodegones), tanto ammirate daCezanne e Morandi, per la maestria con cui seppe rendere potentemente reali gli oggetti: vasi, frutti, fiori o tessuti, riprodotti come entità fisiche e allo stesso tempo evidenze ottiche astratte.
Basti a titolo di esempio l’iperrealistica Natura morta con piatto di cedri, cesto di arancia e tazza
con rosa della Norton Simon Foundation di Pasadena.