Artemisia Gentileschi e le decapitazioni di Oloferne

Rimasi colpito dalla possibilità di vedere le due opere in cui Artemisia Gentileschi ritrasse la scena in cui Giuditta decapita Oloferne, infatti nella mostra a lei dedicata tenutasi a Roma nel 2017 le due tele, una conservata agli Uffizi di Firenze e l’altra presso il museo Capodimonte di Napoli, erano state posizionate nella stessa sala dando la possibilità di goderne quasi contemporaneamente.

C’è un legame specifico tra Artemisia e il tema della decapitazione di Oloferne; molti ritengono che la nota pittrice seicentesca si vendichi, attraverso il disegno, dello stupro inflittole da Agostino Tassi, collaboratore del padre. Questo evento, oltre ad essere violento di per sé, perseguitò a lungo Artemisia, che fu coinvolta in un lunghissimo processo dove sembrava essere lei la colpevole nonostante la sua innocenza.

Artemisia, secondo la prassi, fu obbligata a subire visite ginecologiche lunghe e umilianti, inoltre, per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese, le autorità disposero persino che venisse sottoposta ad un interrogatorio sotto tortura, così da sveltire – secondo la mentalità giurisdizionale imperante all’epoca – l’accertamento della verità.
Il supplizio scelto per l’occasione era quello cosiddetto «della sibilla» e consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l’azione di un randello, si stringevano sempre di più sino a stritolare le falangi. Con questa drammatica tortura Artemisia avrebbe rischiato di perdere le dita per sempre, danno incalcolabile per una pittrice della sua levatura. Tuttavia lei voleva vedere riconosciuti i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a patire, non ritrattò la sua deposizione. Atroci furono le parole che rivolse ad Agostino Tassi quando le guardie le stavano avvolgendo le dita con le cordicelle: «Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!».

Fu così che il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a infliggergli una sanzione pecuniaria, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. Com’è prevedibile, lo smargiasso optò per l’allontanamento, anche se non scontò mai la pena: egli, infatti, non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città.
Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma finì completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni prezzolati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «puttana bugiarda che va a letto con tutti». Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista.

Ecco dunque che il tema di una donna che decapita un uomo potrebbe essere il mezzo con cui Artemisia sfoga la sua sofferenza. Il tema biblico di Giuditta e Oloferne non ha nulla a che vedere con la violenza subita, al contrario Giuditta è un’eroina che salva il proprio popolo decapitando il condottiero nemico.

Ma questo non sminuisce l’importanza che il tema abbia avuto per la Gentileschi che si adopera per eseguirne due versioni in poco meno di 3 anni.

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1617. Napoli, Museo di Capodimonte. © Museo e Real Bosco di Capodimonte
Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620, Firenze, Galleria degli Uffizi,

La prima tela fu realizzata nel 1617 ed è conservata a Napoli, Giuditta compie l’omicidio con un volto freddo e attento, con la collaborazione di una sua fedele. Immobilizzano la testa di Oloferne, mentre infilzano la lama nel collo.
Il sangue cola solo sulle lenzuola bianche, non zampilla come avviene per il dipinto fiorentino. I colori sono più cupi e vivi, il rosso e il blu delle vesti, in netto contrasto tra loro, illuminano la scena.
I visi delle donne sembrano essere inespressivi davanti a tanta crudeltà, nel quadro degli Uffizi invece ostentano maggiore sicurezza e concentrazione.
Nel primo dipinto inoltre Oloferne si vede solo in parte, mentre nel secondo è visibile fino alle gambe che lasciano trapelare un suo movimento di ribellione giunto troppo tardi.
Nell’opera più tardiva aumenta anche la dimensione della spada.
In entrambe le tele è ammirevole la geometria triangolare che assumono le tre figure, quasi imposta e misurata.

L’influenza di Caravaggio, nei toni, nelle ombre e nella veridicità della scena è evidente, lo stesso Merisi aveva dipinto il tema intorno all’anno 1602, anche se le geometrie dei corpi si sviluppano in orizzontale.

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